Tra l’aprile e il maggio del 1955, durante il Ramadán – il mese del digiuno –, un popolare predicatore, lo sceicco Muhammad-Taqí, conosciuto come Falsafí, cominciò a predicare contro i bahá’í in una moschea di Teheran. I suoi discorsi venivano diffusi a livello nazionale dalla radio governativa e si facevano sempre più aspri di giorno in giorno. In tutto il paese, le passioni della folla si infiammavano e venivano ancor più eccitate dai locali capi religiosi. La polizia e l’esercito sequestrarono la sede nazionale bahá’í a Teheran e distrussero la cupola dell’edificio. Il 17 maggio, il Ministro dell’Interno annunciò in Parlamento che il Governo aveva ordinato di sopprimere la "setta bahá’í". I discorsi sediziosi dei capi religiosi, amplificati dall’incoraggiamento del Governo, fecero precipitare una valanga di persecuzioni: luoghi sacri bahá’í occupati e saccheggiati, case e fattorie depredate e incendiate, cimiteri bahá’í profanati, adulti picchiati, giovani donne rapite e costrette a sposare musulmani e molti scacciati da scuola o dal posto di lavoro. Per tutta l’estate le persecuzioni continuarono in tutto il paese, volutamente ignorate da Governo e polizia e anzi, in molte zone, istigate e guidate contro i bahá’í proprio da funzionari governativi. L’episodio dei Sette Martiri di Hurmuzak è avvenuto il 28 luglio di quell’anno, in un momento in cui da una parte le persecuzioni, non represse, diventavano ogni giorno più diffuse e violente, dall’altra il crescente coro di proteste internazionali costringeva il governo iraniano a rendersi conto di non poterle più tollerare. Se il Governo avesse agito con tempestività e vigore, quest’episodio non sarebbe avvenuto.